Partide politice


Le trasformazioni dei partiti politici in Italia negli ultimi 20 anni
 

ANGELO CHIELLI
[University of Bari]

Abstract:
Crisis of the political mass parties does not necessarily mean party crisis. They buy new strength from the always narrowest relationship which entertain with the state institutions. Parties go back to be of the élites closed with poor ties with the members, while constraints which join them to the financial and entrepreneurial élites are very solid. Causes of these changes can be investigated in the crisis of the Welfare State which has even subtracted space to the traditional party activities, turning the enterprises into new political subjects.

Keywords: political parties; élite; enterprise; welfare state; market

 

Introduzione

Qualsiasi analisi sullo sviluppo dei partiti politici in Italia non può non partire dai risultati delle elezioni amministrative parziali del maggio 2012. Il dato eclatante di queste elezioni amministrative è stato l’esplosine del „fenomeno Grillo”.

Beppe Grillo – attore comico e showman televisivo di successo negli anni „80 del novecento, estromesso dalla tivù pubblica a causa dei suoi corrosivi interventi nei confronti del malcostume politico – nel gennaio 2005, apre un blog che nel giro di pochi anni diventerà il primo in Italia per numero di collegamenti ed uno dei più influenti al mondo, su quale proseguirà la propria critica nei confronti delle élite politiche e dirigenti del paese. Il clima da „fine impero” che caratterizza l’Italia nel primo decennio del XXI secolo – trasformismo politico, corruzione a tutti i livelli dello Stato, asservimento delle istituzioni pubbliche ad interessi privati ed infine scandali sessuali che coinvolgono le più alte autorità di governo – ha prodotto una diffusa disaffezione dei cittadini verso la sfera politica e più in generale una elevatissima sfiducia nei confronti dei partiti politici. L’intuizione di Beppe Grillo è quella di dar vita non ad un nuovo partito, troppo screditati, e neppure ad un movimento, troppi negli ultimi anni hanno attraversato la scena politica italiana senza lasciare alcuna traccia, ma di utilizzare la positiva esperienza e diffusione del proprio blog per costruire gruppi locali, composti essenzialmente da giovani, non provenienti dai partiti tradizionali e senza alcuna pendenza giudiziaria, che intendano partecipare alle elezioni amministrative, certificando con un marchio, „cinque stelle” appunto, la qualità dell’offerta politica. Il successo di questa operazione mediatica e politica insieme ha condotto alla elezione di un sindaco „grillino” in una città medio-grande del centro-nord come Parma e ad attribuire, in base ai sondaggi di alcuni istituti di ricerca, al movimento „cinque stelle” una forza elettorale che lo colloca come secondo partito su scala nazionale con circa il 20% delle preferenze.

L’applicazione massiccia delle tecniche del marketing alla dimensione politica, non è una novità nel panorama italiano. Sebbene non spinto sino all’estremo, come nel caso del movimento grillino, il Partito politico Forza Italia, fondato nel 1994 dal magnate televisivo Silvio Berlusconi1, si presenta anch’esso come un puro prodotto di una consapevole e predeterminata strategia di marketing. Il partito, infatti, si addossa, inizialmente, alla struttura di aziende, sempre di proprietà di Silvio Berlusconi, tanto da apparire come una ulteriore attività dell’imprenditore Berlusconi; utilizza massicciamente i canali televisivi, la stampa quotidiana e i rotocalchi berlusconiani per farsi conoscere e la tecnica preferita, oltre ovviamente gli spot collocati nelle fasce di maggior ascolto, fu quella di far recitare ai volti noti delle reti Mediaset, intenzioni di voto a favore di Silvio Berlusconi.

Forza Italia non è un’organizzazione partitica classica, non nasce da interessi di gruppi sociali , ma è una formazione costituita da pezzi dell’élite politica e finanziaria esistente assemblate con le tecniche proprie della comunicazione di massa in cui prevalente è la personalità del leader, vero demiurgo, mentre viene collocato sullo sfondo qualsiasi riferimento ad un programma particolare.

Il movimento Cinque Stelle e Forza Italia presentano alcuni fondamentali tratti comuni, sebbene declinati in modo differenziato.

Entrambi sono il frutto di complesse strategie mediatiche piuttosto che espressione di bisogni di gruppi e classi sociali; l’uno si appoggia su di una diffusa rete aziendale che coinvolge settori disparati ma fondamentali per il successo politico (televisioni, giornali, squadre di calcio), l’altro sfrutta sapientemente le possibilità offerte dai nuovi strumenti comunicativi telematici. Infine, entrambi puntano sulla enfatizzazione delle qualità carismatiche del leader.


I due linee a confronto

Due linee interpretative, corrispondenti a due differenti modi di agire e considerare i partiti politici, hanno sempre spartito il campo della valutazione critica e della ricostruzione storiografica.

La prima ha inteso i partiti politici come una, sebbene la più importante, tra le possibili forme associative che, a partire dalla Dichiarazione dei Diritti del 1789 sino alle recenti carte costituzionali del secondo dopoguerra, caratterizzano tutte le democrazie moderne2. In particolare, queste singolari associazioni hanno lo scopo di selezionare le élite di governo di un paese, di far emergere orientamenti politici, di fungere da mediatori tra elettori ed eletti. Tutte queste funzioni, come si può facilmente constatare, rimangono però confinate nella sfera sociale, esse non varcano mai la soglia delle istituzioni. I partiti sono e rimangono associazioni private non strumenti pubblici. Essi conservano un potere di fatto, consistente nella possibilità di condizionare gli orientamenti e l’attività delle istituzioni rappresentative, ma gli unici titolati a dar forma concreta alla sovranità dei cittadini sono i rappresentanti eletti e non i partiti politici. Questa tappa dell’evoluzione di partiti è corrispondente a società poco complesse al proprio interno, con un suffragio ristretto e con poteri statali nettamente separati tra loro e ciascuno con un proprio circuito politico-elettorale.

L’altro orientamento parte dal riconoscimento dell’impossibilità di confinare i partiti politici all’interno delle libertà di associazione e dall’analisi fattuale dell’insostituibile compito da essi svolto. Uno dei caratteri dello Stato moderno, non il solo, ma certamente il più importante, è la rappresentatività. Quella moderna differisce dalle forme più arcaiche per il diritto, riconosciuto a ciascun membro della comunità politica, alla partecipazione alla cosa pubblica e per l’estensione a tutti i cittadini del potere d’intervenire direttamente, ma il più delle volte indirettamente, alla formazione della volontà dello Stato.

Il partito politico è frutto del tentativo di foggiare strumenti per rendere effettivo questo principio di rappresentatività nel senso sopra delineato. Il partito è una particolare associazione che non persegue meri interessi ma assume consapevolmente come propria una concezione generale dello Stato e s’impegna a tradurla in pratica. D’altro canto la necessità, tipica delle democrazie moderne, di conquistare il consenso delle masse, ha condotto i partiti moderni a dotarsi di una organizzazione che si fonda su una idea politica complessiva capace di mantenere coeso il gruppo e, potenzialmente, di attrarre nuovi aderenti, al fine di modificare l’intera vita sociale3. Senza i partiti politici non si ha passaggio dalla molteplicità dispersa dei contrastanti interessi organizzati all’unità politica sorretta da indirizzi politici omogenei in grado di consolidare in una forma stabile legami deboli e fluttuanti. Il partito politico moderno è certamente pars ma intenziona l’universitas, esso è embrione di unità.

Il partito di massa moderno ha ben presente la propria natura parziale, in quanto rappresenta strati sociali ben determinati e, conseguentemente, sostiene un progetto politico omogeneo agli interessi rappresentati. Questo modello di partito è dedito alla mediazione, poiché consapevole trait-d’union tra il particolare e l’universale: la particolarità delle associazioni partitiche non nega ma prepara la dimensione universale.

I partiti non svolgono più solo un compito „preparatorio” rispetto a quello delle istituzioni, vere ed uniche, queste ultime, detentrici del potere politico, ora anche ai partiti – che varcano così in modo definitivo la soglia che divide società ed istituzioni installandosi stabilmente in esse – spetta questo fondamentale compito.

Secondo l’opinione di autorevoli studiosi4, i partiti politici italiani conservano le caratteristiche di entrambi i modelli, senza mai spingere alle estreme conseguenze uno dei due a scapito dell’altro5. Collocati al confine tra società ed istituzioni, i partiti politici italiani, nel secondo dopoguerra, hanno saputo sapientemente utilizzare questa ambiguità. La propria ancipite natura si è trasformata in una formidabile risorsa che ha consentito loro di espandersi e conquistare spazi, in precedenza, ad essi preclusi. La debolezza della struttura dello Stato unitario, poi, ha agevolato questa attività di colonizzazione.


Fisionomia del partito di massa

I „partiti di massa” sono stati organizzazioni con una base ampia e capillare, profondamente radicati nella società (partito-società), il cui compito fondamentale, seppure non esclusivo, è stato quello di specificare la domanda sociale e tradurla in atti legislativi e governativi6. Ciò assicurava al partito risorse economiche (tesseramento) e lavoro volontario degli iscritti. Inoltre, l’ampia base, che non comprendeva solo gli iscritti ma si estendeva ai simpatizzanti ed agli elettori, costituiva il canale privilegiato lungo il quale, dal basso verso l’alto si muovevano gli umori immediati, non elaborati, dei gruppi sociali di riferimento e, dall’alto in basso, si diffondeva „la linea” del partito. Il ruolo di collante in questa complessa macchina organizzativa lo svolgeva l’ideologia. Difatti il problema che un „partito di militanti” ha di fronte è quello della necessità di una base ideologica per motivare e mobilitare gli iscritti, tuttavia quella stessa ideologia produce una rigidità che risulta estremamente difficile da superare anche quando un suo indebolimento risulterebbe vantaggioso, ad esempio, sul piano elettorale.

I bisogni sociali che i partiti organizzavano si presentavano come bisogni collettivi di vasti aggregati sociali. La forza dei partiti moderna discende infatti proprio dal fatto che essi derivano dalle grandi fratture che hanno definito le caratteristiche principali delle società industriali del novecento7. Tuttavia le tendenze alla razionalizzazione e burocratizzazione che pervadono l’economia, le istituzioni e la stessa società, non tardano a manifestarsi anche all’interno dei partiti.

Il passaggio tra il partito notabilare ed il partito dei professionisti della politica analizzato da Max Weber è il segnale inequivocabile che il partito-macchina tende, all’inizio del novecento, a sopraffare il partito-idea, che le burocrazie politiche prendono il sopravvento sui militanti, che i dirigenti politici si trasformano in gruppi ristretti e tendenzialmente chiusi.

Altro elemento che connota la fisionomia dei partiti di massa e il nesso identità-organizzazione che ha rappresentato il cardine della struttura interna dei partiti8. Le cellule, gruppi di iscritti al partito in un luogo di lavoro, fanno capo ad una sezione territoriale, luogo, in primis, di socializzazione alla politica, di discussione e aggregazione tra gli aderenti e di mobilitazione. La sezione rappresenta soprattutto un terminale sensibilissimo delle trasformazioni che scuotono, spesso in modo poco percettibile ai dirigenti più interessati al livello politico-istituzionale, la società9. Via via che si ascende verso il vertice del partito acquistano, ovviamente, maggiore importanza rispetto ai militanti, i quadri intermedi, spesso personaggi di notevole spessore dirigenziale, ottimi amministratori con alle spalle un lungo curriculum politico ed istituzionale. Al livello nazionale tutti i partiti italiani presentano un gruppo dirigente vasto e composito, culturalmente differenziato, il che ha favorito un ampio e serrato dibattito interno. La presenza di un ceto dirigente diffuso dotato di una forte credito presso gli iscritti ha come conseguenza la formazione di un partito acefalo, cioè privo di un leader carismatico. Anche quest’ultimo è un dato peculiare che accomuna, con poche eccezioni, tutti i partiti italiani.

La svolta avviene nel secondo dopoguerra, i partiti di massa sono i soggetti di una trasformazione democratica senza precedenti nella storia del paese, una democrazia dei partiti, senza dubbio imperfetta, ma capace, pur nei suoi limiti, di accompagnare vaste masse, politicamente „incolte”, del tutto estranee alla vita istituzionale dello stato, all’interno di esso, trasformandole da sudditi in cittadini, incanalando la protesta – spesso nulla più che semplici rivolte senza alcuna direzione politica – verso forme complesse di lotta e di richieste di cambiamento.

Qual è stato l’esito del processo d’integrazione delle masse nello stato? Un processo incompleto, dagli esiti spesso ambigui, che non ha prodotto mutamenti sostanziali sulla „forma-stato”. Le classi subalterne sono state quelle che con maggiore successo, grazie all’opera svolta dai partiti, hanno acquisito un „senso dello stato” che le ha condotto a mantenere una bassa conflittualità proprio quando (a partire dagli anni „90” del novecento), venivano erose, in modo consistente, parte delle conquiste sociali e salariali conseguite negli anni del cosiddetto „compromesso socialdemocratico”.

Le difficoltà maggiori sono state riscontrate laddove non ci si attendeva d’incontrarle, (anche se un semplice sguardo retrospettivo agli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale avrebbe dovuto e potuto far intendere facilmente quale fosse il versante lungo il quale più facilmente il processo d’integrazione mostrava crepe vistose), nella media e grande borghesia imprenditoriale, nei ceti dipendenti dalle rendite finanziarie, nell’alta dirigenza statale e persino in quel vasto tessuto sociale estraneo al conflitto capitale-lavoro.


Le trasformazioni recenti

La linearità tra condizione sociale e collocazione politico-ideale , tra essere sociale e appartenenza politico-partitica è stata definitivamente consumata dalle grandiosi trasformazioni economiche, sociali e politico-culturali dell’ultimo trentennio.

Crisi dei partiti di massa non significa,però, necessariamente crisi dei partiti. Hanno esaurito la propria funzione gli storici „partiti di massa”, vengono avanti nuovi partiti che potremmo definirli „partiti professionali istituzionali”, poiché sono sempre delle organizzazioni complesse, con un numero elevato di funzionari stabili (anche se la composizione di questi gruppi è completamente mutata rispetto al precedente modello), con uno strettissimo legame con le istituzioni statali da cui traggono risorse e legittimazione in misura pari se non superiore da quelle che ricavano dai sempre più labili legami con la base degli iscritti e degli elettori

Il finanziamento pubblico10 ai partiti ha fatto venir meno il rapporto, essenziale, invece, per la vita del partito di massa (la necessità di autofinanziarsi imponeva ai partiti di dedicare una parte notevole della propria attività al reclutamento, mentre per tener vivo il legame degli iscritti alla organizzazione si ricorreva alla costante mobilitazione), con gli iscritti i quali risultano poco determinanti dal punto di vista economico (conservano importanza invece nel determinare il peso di ciascun boss, soprattutto a livello locale, e per questo si assiste spesso al fenomeno di iscritti „inconsapevoli”, ovvero di individui che senza aver mai fatto richiesta di aderire ad un partito risultano iscritti; la quota di tesseramento viene pagata del boss, il quale investe, in questa attività, ingenti risorse economiche che sono, alla fine , le uniche vere risorse determinanti), e quindi anche le posizioni assunte dalle élite dirigenti diventano sempre più „impermeabili” nei confronti degli umori della base.

Ad aumentare l’autonomia11 dei gruppi dirigenti nei confronti della base ha contribuito la diffusione degli strumenti di comunicazione (TV, rete internet)12 quale mezzo per diffondere e far conoscere le posizioni del partito. Anzi, l’intera struttura del partito di massa – complessa macchina burocratica, poco elastica, governata da gruppi dirigenti ampi con robusti legami con il territorio – si rivela un impaccio per le nuove élite dirigenti, abituate ad un forma di comunicazione politica virtuale caratterizzata da un contatto „diretto” tra leader ed elettori che salta completamente la mediazione del partito. Il modello mediatico di comunicazione politica sostituisce gli „spazi pubblici” quali luoghi privilegiati di formazione della sfera pubblica. Ma, soprattutto, gli strumenti mediatici impongono agli attori politici il proprio linguaggio e la propria logica (un esempio eclatante di questo dominio dei media anche in funzioni che in passato erano esclusive attività riservate ai partiti, è riscontrabile nella selezione delle élite dirigenti: il reclutamento di nuovi personale politico avviene oramai, secondo criteri mediatici, non a caso sono in aumento i casi di personaggi televisivi che intraprendono la carriera politica). La comunicazione politica è essenzialmente tutta interna al rapporto che s’instaura tra sistema politico e sistema dei media, tagliando completamente fuori da questo circuito i militanti, gli elettori e i cittadini, i quali assumono tutt’al più il ruolo, non essenziale ai fini della comunicazione, di spettatori passivi. Tuttavia l’effetto più importante del nuovo rapporto tra media e politica è che tra i due si stabilisce un rapporto simbiotico per il quale l’uno dipende sempre più dalle prestazioni e risorse che può mettere a disposizione l’altro. Si viene così a configurare un conglomerato di potere in cui i confini tra politica e media sono sempre più labili sino a scomparire del tutto. Il caso italiano, sotto questo punto di vista , presenta una anomalia, unica in tutte le democrazie del mondo occidentale, che ha favorito ulteriormente il distacco tra orientamenti sociali e partiti. In Italia si è verificato una totale sovrapposizione tra potere politico e informazione, in particolare di quella televisiva. La concentrazione dei mezzi d’informazione in pochi grandi gruppi legati saldamente al potere politico o, in alcuni casi, divenuti essi stessi potere politico, non ha generato solo una opinione pubblica passiva, omogenea ideologicamente e conformista dal punto di vista politico, la deformazione maggiore, e più gravida di conseguenze pericolose per la democrazia, è stata la impossibilità per vasti ed articolati settori della società di poter trovare una tribuna adeguata in cui dibattere e far conoscere le proprie proposte politiche e sociali. La riduzione al silenzio di questi gruppi ha notevolmente ridotto ed impoverito il dibattito pubblico impedendo, inoltre, la crescita e la diffusione di associazioni e partiti portatori di culture e prospettive alternative.

La principale conseguenza politica del nuovo modello mediatico è senza alcun dubbio la personalizzazione della leadership dei partiti13. E’ questo un processo generale che caratterizza tutte le democrazie occidentali e che modifica in modo sostanziale il rapporto tra elettori ed eletti, coinvolgendo a cascata tutte le principali funzioni dei partiti: selezione dei candidati, finanziamenti, programma elettorale. Il passaggio da un sistema caratterizzato da partiti acefali ad uno con partiti centrati sul candidato, favorito, peraltro, dal nuovo sistema elettorale uninominale e maggioritario, ha spostato le prerogative tipiche dei partiti di massa (selezione dirigenti, finanziamenti, programmi ecc. ecc.) dalla macchina organizzativa del partito stesso agli apparati personali di ciascun candidato, apparati indipendenti, sia dal punto di vista decisionale che finanziario, dal partito stesso.

Questo processo di personalizzazione è stato favorito in Italia da due fattori. In primo luogo, durante gli anni ‘90, il paese ha conosciuto una lunga stagione referendaria14. Il referendum si è trasformato da strumento eccezionale del processo di formazione della volontà statale in mezzo ordinario, perché presentava il pregio di saltare la mediazione dei partiti evocando, spesso con eccessiva enfasi, una più sostanziale „democrazia diretta”. I temi prescelti, da sottoporre al giudizio dell’elettorato, sono stati accolti con fastidio dai partiti che hanno dovuto, obtorto collo, prendere posizione malvolentieri (peraltro in modo netto si o no, che è la logica del referendum, senza possibilità di posizione intermedia) e spesso hanno invitato gli elettori a non recarsi alle urne per non raggiungere il quorum necessario ed invalidare così la tornata referendaria. Il referendum ha fornito l’occasione per far emergere una nuova leadership che deliberatamente faceva a meno delle risorse messe a disposizione dei partiti preferendo l’appello diretto verso quei movimenti , associazioni, comitati di cittadini (che enfaticamente veniva definita „società civile”, categoria che ha riscosso molto successo nel dibattito politico italiano) che lo sgretolarsi della base sociale dei partiti tradizionali aveva portato alla luce.

L’altro fattore che ha favorito la personalizzazione della leadership è stato la legge elettorale numero 132 del25 marzo 1993, che ha stabilito, per la prima volta nel paese, l’elezione diretta del sindaco con doppio turno di ballottaggio15. Questa grande novità nel panorama politico italiano è stata dettata proprio dalla profonda crisi di legittimità e dal discredito morale che ha investito i partiti politici. L’idea è stata quella di trasferire, sul terreno politico locale, l’esperienza positiva accumulata nelle prove referendarie, del cortocircuito diretto leader/elettorato. In un primo momento i risultati sono stati indubbiamente positivi. Sono stati selezionati candidati non provenienti direttamente dalla struttura dei partiti, personaggi in grado di attrarre, per le indiscusse qualità personali, elettori non appartenenti al bacino elettorale dei partiti che sostenevano il candidato sindaco. Ciò però ha anche acuito la crisi dei partiti16. Il candidato aveva ottime ragioni per marcare la distanza dai partiti che pure lo hanno sostenuto, accentuando di fronte all’elettorato la propria autonomia, rivendicando la scelta dei collaboratori al di fuori delle logiche spartitorie del passato. In definitiva, il primo vero ostacolo che il candidato sindaco ha dovuto superare per affermare la propria leadership è stato tutto interno alla coalizione che lo ha eletto. Non sono stati infrequenti, infatti, casi di conflitti, anche aspri, tra primo cittadino e maggioranza politica e la nascita di liste facenti capo direttamente al sindaco, con lo scopo di dotarlo di un seguito personale nel Consiglio comunale che gli assicuri una autonomia decisionale rispetto alla propria coalizione.

Proprio sul terreno locale sono emerse le nuove figure che hanno totalmente sostituito il personale politico che in passato era costituito da un insieme di volontari e funzionari di partito accomunati da un profondo legame ideologico e dall’appartenenza ad un identico blocco sociale. Essi erano impegnati innanzitutto nel proselitismo, nell’attività di mobilitazione, nella mediazione, ovvero nell’incanalare nelle forme politico-rivendicative i conflitti che emergevano sul terreno economico – conflitto capitale-lavoro – oppure sul terreno amministrativo e sociale – servizi sociali in genere.

Oggi i funzionari, spesso aggregati alle amministrazioni pubbliche come consulenti esterni, city-manager ecc., sono specializzati nel reperire finanziamenti non attraverso l’ordinaria amministrazione ma sulla base ad opportunità di risorse offerte dai fondi strutturali, da bandi regionali, creando le condizioni per attrarre investimenti o consentire la localizzazione di eventi o istituzioni nazionali ed internazionali. Questo nuovo personale politico, avente funzioni essenzialmente strumentali, è a supporto diretto dei dirigenti politici (sindaci, assessori, presidenti di regioni ecc.), da cui dipende totalmente, non intrattengono alcun rapporto con la base, poiché impegnati in strategie competitive rivolte verso l’esterno del partito (altri partiti o altre amministrazioni). Esso è funzionale alle esigenze di visibilità del singolo „boss” e della classe politica locali. Essere funzionario locale di un partito non dipende, come accadeva al contrario in passato, dalla capacità di organizzare stabilmente il consenso, fidelizzando gli iscritti, dotandoli di una „ideologia”, ma dalla capacità di „fare rete” tra soggetti istituzionali pubblici e privati e di attrarre finanziamenti funzionali esclusivamente alle attività politiche e amministrative del „boss”.

In definitiva, gli strumenti che necessariamente devono possedere i nuovi leader sono quindi: 1) risorse economiche derivanti da finanziamenti pubblici o da donazioni effettuate da grandi gruppi privati; 2) strategie comunicative complesse gestite da agenzie professionali; 3) ricorso costante ai sondaggi d’opinione per sondare continuamente gli umori degli elettori.

Al vertice della piramide, il partito politico si presenta come una élite chiusa, autoreferenziale, lontana dalla propria base elettorale ma ben inserita negli apparati statali e al centro di una fitta rete di relazioni con grandi aziende da cui trae risorse economiche e conoscenze specialistiche in cambio di un atteggiamento di favore nel caso partecipazione alla compagine governativa. La trasformazione dei partiti nell’ultimo trentennio s’intreccia con le profonde riorganizzazioni che riguardano il ruolo dello Stato ed in particolare di quella del welfare state. Quest’ultimo infatti aveva garantito che alcuni settori e servizi fossero sottratti alla logica mercantile e gestiti sulla base di un prevalente „interesse pubblico” per sua natura universalistico. Il concetto di cittadinanza è totalmente costruito sull’esistenza di questi spazi nettamente separati dalla sfera del mercato17.

La crisi del welfare state ha progressivamente attratto verso la sfera del mercato la produzione di beni e l’offerta di servizi che in passato erano assicurati al di fuori di esso o direttamente dallo Stato o da enti ed imprese a carattere prevalentemente pubblico. L’ideologia neoliberale che domina culturalmente il mondo occidentale, impone, al contrario, di liberare lo Stato da qualsiasi attività che non sia quella di regolamentazione dell’attività economica, avviando una massiccia privatizzazione dei settori in precedenza statalizzati. L’Italia, nel secondo dopoguerra, possedeva un ampio settore pubblico che includeva industrie di base, agroalimentare, la maggior parte del sistema bancario, imprese di trasporti, energetiche e telecomunicazioni, oltre alla gestione diretta di sanità, istruzione e previdenza. Questi settori, nonostante siano risultati il principale, se non unico, volano della ricostruzione postbellica, si rivelarono anche molto permeabili a criteri di gestione politico-clientelari, accumulando così deficit finanziari ed esponendosi, frequentemente, a fenomeni di corruzione.

Nell’ultimo decennio del novecento si diede avvio allo smantellamento dell’industria pubblica attraverso la privatizzazione e più spesso attraverso la gestione in appalto di alcuni beni e servizi. L’intento era quello di restituire efficienza a questi settori riconsegnandoli alla logica del mercato la quale avrebbe dovuto assicurare prezzi più bassi ed eliminare la possibilità d’interferenze del potere politico nella gestione economica.

La storia ha purtroppo proceduto in una direzione diversa da quella ottimisticamente prevista. I partiti politici, che nel frattempo vedevano sbriciolarsi i blocchi sociali che li avevano generati e rispondevano a questa perdita di legittimità arroccandosi sempre più all’interno delle istituzioni e degli apparati statali, colsero immediatamente la possibilità che veniva loro offerta dallo stretto legame che la nuova economia, basata sull’appalto delle opere e dei servizi pubblici ai privati, generava tra élite politica ed élite economica. Non essendoci nell’appalto la cessione completa del bene da parte dello Stato ad un privato (in questo caso parleremmo di privatizzazione), ma solo la cessione della gestione del servizio, in genere per un lasso di tempo predefinito, la necessità di rinegoziare periodicamente le condizioni contrattuali crea le condizioni di „prossimità” tra élite politiche ed economiche, al punto che il funzionamento del mercato puro, descritto dai classici, caratterizzato da una concorrenza perfetta, in cui nessun agente può trovarsi in una situazione di privilegio nei confronti degli altri , non è più possibile. Di fatto alcuni gruppi economici sono in posizione di vantaggio, rispetto ad altri, nell’accesso alla sfera della decisione politica, su cui, peraltro, sono in grado di esercitare una enorme pressione. La cifra di questo processo si evidenzia facilmente rilevando l’incremento esponenziale , rispetto al passato, con cui membri della classe politica e manageriale si scambiano i ruoli, tanto da poter parlare, oramai, di un’unica classe dirigente che assume forme differenti (tecnico, politico, manager, consulente).

Si aggiunga a ciò che lo Stato non produce più i propri „tecnici”, cioè quel personale tecnico-amministrativo che si pone dal punto di vista complessivo, poiché ha rinunciato al ruolo politico di decisore in ultima istanza della distribuzione delle risorse e della fissazione degli obiettivi da perseguire, avendo delegato questo compito al mercato ed avendo, inoltre, assorbito nei principali ruoli politico-istituzionali personale proveniente dall’impresa privata (i cosiddetti „tecnici”). La funzione d’intermediario tra impresa e Stato sta lentamente emergendo dalla clandestinità, affermandosi in forme completamente diverse rispetto alla tradizionale attività di lobbyng, imponendosi come una specifica offerta di sevizi in cui essenziale è, per il personale che la esercita, l’aver rivestito entrambi i ruoli. Ciò garantisce il possesso d’informazioni e conoscenze – spesso anche riservate – oltre alla presenza di una rete di relazioni ampia con i centri nevralgici del potere politico ed economico-finanziario, assolutamente necessari per l’espletamento di questo nuovo profilo di attività imprenditoriale che potremmo definire „immateriale”.


Conclusioni

In conclusione, la situazione attuale è caratterizzata da: assenza di distinzione tra settore privato e pubblico; assunzione di ruolo politico da parte di personale proveniente dalle grandi multinazionali; aumento degli appalti a privati di attività pubbliche; spostamento dell’asse decisionale dai partiti politici alle élite economico-politiche; tutto ciò ha definitivamente incrinato le funzioni classiche dei partiti poiché quelle funzioni sono state privatizzate18, sono divenute commercializzabili, hanno cioè un prezzo e quindi sono soggette alle regole del mercato. Però le imprese che producono queste attività acquisiscono uno status particolare, poiché lo svolgimento di quei compiti determina anche l’assunzione di un potere politico sempre più pervasivo.

I partiti politici italiani nell’ultimo ventennio hanno, da un lato, recuperato una dimensione che appartiene al passato, quella del partito personale al servizio di un leader, o di ristretto gruppo dirigente, quasi del tutto svincolato da un legame ideologico e organizzativo dalla base; dall’altro lato, assume le forme ipermoderne dell’azienda impegnata solo nella elaborazione di strategie di marketing tese alla valorizzazione di un „marchio”. Quale delle due anime avrà il sopravvento è difficile da prevedere, quel che è certo è il definitivo tramonto del partito politico di massa novecentesco.

 

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NOTE

1 Su Berlusconi politico cfr A. Abruzzese, Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto, ( Genova:Costa&nolan, 1994.
2 Il riferimento classico non può non essere quello a Max Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, (Mohr: Tübingen, 1922), tr. it., Economia e società (Milano, Comunità, 1968).
3 Colui che in Italia ha avviato la riflessione sui partiti in questa direzione è stato Costantino Mortati di cui si veda, La costituzione in senso materiale, (Milano: Giuffrè, 1998), (1° ed.1940). Sul pensiero di Mortati si veda M. Galizia (a cura di), Forme di Stato e forme di governo: nuovi studi sul pensiero di Costantino Mortati, (Milano: Giuffrè, 2007).
4 Cfr. su tutti M. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, il Mulino, Bologna 1998, in particolare le pp. 80-6.
5 La ragione di ciò è lucidamene chiarita sempre da M. Fioravanti:«In altre parole, i rappresentanti dei partiti politici alla Costituente proclamavano sì la funzione istituzionale dei partiti, collettivamente come sistema, e di ciascuno di essi come strumenti di organizzazione della sovranità popolare, ma poi concretamente pensavano gli uni degli altri in termini tutt’altro che istituzionali, in termini anzi crudamente iperpolitici: nei termini della parte, e di più della parte che minacciava di schiacciare l’altra, che quasi sicuramente avrebbe usato i poteri di governo per impadronirsi dell’intero spazio dello Stato e della costituzione», Costituzione e popolo, 81-2.
6 Sull’evoluzione dei partiti politici si veda l’ancora utile Introduzione di G. Sivini all’antologia Sociologia dei partiti politici, (Bologna, il Mulino, 1971).
7 Classico in tal senso S. Rokkan, Citizen, Election, Parties, (Universitetsforlaget: Oslo, 1970), tr. it., Cittadini, Elezioni, Partiti, (Bologna: il Mulino,1982).
8 A. Panebianco, Modelli di partito, (Bologna: il Mulino, 1982).
9 Il modello idealtipico è il partito socialdemocratico europeo. In Italia il partito con una struttura organizzativa simile è stato il PCI, sulle trasformazioni del PCI si veda P. Ignazi, Dal PCI al PDS, (Bologna: il Mulino, 1992) e M. Prospero, R. Gritti, Modernità senza tradizione. Il male oscuro dei Democratici di Sinistra, (Lecce: Piero Manni editore, 2000).
10 Cfr sul tema E. Melchionda, Il finanziamento della politica, (Roma: Editori Riunuti, 1997).
11 La completa autonomizzazione dei partiti politici dalla base sociale che li ha, in passato, prodotti è la conseguenza, oltre che della loro identificazione con le istituzione, di una serie di decisioni politiche gravide di conseguenze. La più rilevante è senz’altro la legge elettorale del 21dicembre 2005 numero 270, altrimenti detta „porcellum”, che ha sottratto del tutto agli elettori il potere di selezionare la rappresentanza politica. I membri del parlamento sono designati dalle segreterie dei partiti, nel migliore dei casi, oppure direttamente dal leader ed a questi i primi rispondono in quanto la propria rielezione dipende dalla fedeltà alle direttive superiori e non al giudizio degli elettori.
12 S. Bentivegna, La politica in rete, (Roma: Meltemi, 1999).
13 Ha avviato in Italia la discussione su questi temi L. Cavalli, Il capo carismatico, (Bologna: il Mulino, 1981); più recente S. Fabbrini, Il Principe democratico. La leadership nelle democrazie contemporanee, (Roma-Bari, Laterza, 1999).
14 Sull’istituto del referendum cfr A. Chimenti, Storia dei Referendum, (Roma-Bari: Laterza, 1999); cfr, inoltre, M. Fedele Democrazia referendaria, (Roma-Bari: Laterza, 1994).
15 Su questi temi la bella analisi di M. Calise, Il partito personale, (Roma-Bari:Laterza, 2000).
16 Mauro Calise Il partito personale, 62,63, individua tre novità, nella legge elettorale per l’elezione diretta del sindaco, che hanno avuto effetti negativi sui partiti: 1) l’elezione del sindaco non spetta più ai consiglieri comunali, espressione dei partiti, ma all’elettore; 2) il potere del sindaco di scegliere direttamente gli assessori, con l’obbligo di sceglierli al di fuori del consiglio comunale; 3) stretto legame che s’instaura tra sindaco e media.
17 Di grande fascino su questi aspetti l’analisi di C. Crouch, Postdemocrazia, (Roma-Bari: Laterza, 2003).
18 Il vincolo di natura pubblica che nelle democrazie moderne lega elettori e potere politico per mezzo dei partiti diviene un simulacro vuoto poiché esso non si estende al vincolo privatistico che unisce lo Stato al fornitore di servizi.

 

ANGELO CHIELLI – Profesor de filozofie politică la Università degli Studi „Aldo Moro” di Bari, director al cursului de „Perfecţionare în politici europene şi Fonduri structurale”. Este specializat în filozofia politică a secolului XX, cu precădere în Benedetto Croce. Ultimele cărţi publicate: Benedetto Croce e la crisi della cultura europea e La volizione dell’irreale. „Legge” e „Stato”nella filosofia di Benedetto Croce dalla Filosofia della pratica agli Elementi di politica, amândouă la editura Pensa di Lecce.


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